Licio Gelli, ovvero: uno, nessuno, centomila: è orgogliosamente fascista, e lo rivendica: “Ho studiato con il fascismo, sono cresciuto con il fascismo. Ho combattuto per il fascismo, sono fascista, e morirò fascista”.
Ha combattuto in Spagna, durante gli anni della Guerra civile. Naturalmente dalla parte dei golpisti del generale Francisco Franco; fascista mussoliniano, durante la guerra è stato, contemporaneamente collaboratore dei tedeschi, ma anche in ottimi rapporti con le formazioni partigiane toscane: quelle monarchiche e anarchiche; ma anche con quelle “garibaldine” e comuniste, se è vero che proprio loro, i “rossi” gli danno un salvacondotto e garantiscono per lui.
Poi…poi negli anni tumultuosi del dopo-guerra si “inventa” imprenditore, mille traffici di ogni tipo, diventa massone; e si impadronisce della loggia P2: la trasforma in un formidabile strumento di potere personale. Indro Montanelli lo incontra una sola volta; ha appena lasciato il “Corriere della Sera”, fondato con altri fuoriusciti “Il Giornale”, non ha il becco di un quattrino, cerca finanziamenti e finanziatori. Il capo della redazione romana Renzo Trionfera gli dice che c’è un tipo che forse li può aiutare. Trionfera è un massone dichiarato, di quella massoneria che con la P2 non ha nulla a che fare; ma un tentativo lo fanno, perché il tipo che li può aiutare è proprio Licio Gelli. Vengono ricevuti all’hotel Excelsior di Roma, e il piduista attacca un interminabile bottone sulla necessità di impadronirsi delle leve del potere, e sostituire radicalmente la classe politica al potere. Montanelli e Trionfera si guardano sgomenti, se ne vanno scambiandosi commenti poco lusinghieri sul quel tipo che fa strani discorsi. Non lo vedranno più. Montanelli di Gelli dà un giudizio fulminante: “E’ un gran parabolano”, cioè un chiacchierone.
La magistratura comincia a interessarsi a questo “parabolano”. Due sostituti procuratori milanesi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone indagano su Michele Sindona, il bancarottiere italo-americano originario di Patti. Gelli ha strettissimi rapporti. Così quando perquisiscono la splendida villa Wanda ad Arezzo dove Gelli vive, si imbattono in una sconcertante lista di affiliati: ben 962: 119 alti ufficiali della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, della Polizia, tutti i vertici dei servizi segreti; e ancora: un giudice della Corte Costituzionale, 14 magistrati, 59 tra ministri, segretari di partito e parlamentari, i vertici della Rizzoli, otto direttori di giornali, 22 giornalisti, 128 dirigenti di enti pubblici, diplomatici, imprenditori. C’è davvero di tutto, da Claudio Villa ad Alighiero Noschese, da Vittorio Emanuele di Savoia; e anche lui: l’allora giovanissimo Silvio Berlusconi all’inizio della sua carriera. Per lui Gelli ha un viatico che gli resta incollato per sempre: “E’ l’unico che potrà cambiare l’Italia”. Come, lasciamo perdere.
Anni dopo, sempre a villa Wanda, la Digos scopre, interrati nelle fioriere ben 160 chili di lingotti d’oro, mai saputa spiegarne l’origine. Solo in Svizzera, in ben custoditi conti bancari cento milioni di dollari.
Gran tessitore di rapporti di potere occulti e diffusi legami internazionali, dall’Argentina di Juan Peron, all’Egitto e la Romania comunista di Nicolae Ceausescu, la sua P2 risulta coinvolta in mille traffici e in tutti i maggiori scandali del paese: dal tentato golpe Borghese, al crac Sindona, il caso Calvi, la scalata ai grandi gruppi editoriali. Condannato a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano, li sconta dove? A Villa Wanda, dove l’altro giorno è morto. Sul suo conto se ne sono dette di tutte, ma forse la verità è che questo singolare, inquietante personaggio, di sovvertire le istituzioni, di fare “il golpe”, di instaurare un regime “forte” non ci ha mai davvero pensato. Nel “debole” regime italiano, ci sguazzava beato; lucrava e faceva affari, era il suo mondo. Un dittatore, un gerarca, un fascista alla Mussolini da lui avrebbe voluto solo e unicamente obbedienza, mai l’avrebbe trattato alla pari, mai sarebbe sceso a patti con lui…
No, la P2 di Gelli è stata, fondamentalmente l’italico eterno “partito della bistecca”. Affari, e ancora affari; tanti affari. Più o meno (molto spesso meno che più), puliti e legali, certamente. Ma “affari”. L’ideologia l’aveva buttata alle ortiche da tempo. Ha parlato tanto, ma ha detto sempre molto poco. Una volta però ha ammesso che i piduisti erano molti di più di quelli scoperti, all’appello ne mancavano almeno 1500. Forse una spacconata; forse una parte di verità; in ogni caso è l’ennesimo mistero. Lo hanno chiamato “Gran Maestro Venerabile”, “Belfagor”, “Burattinaio”. Non gli dispiaceva essere chiamato così.
Probabilmente a sua volta è stato “burattino” di qualcuno che ci risulta ancora ignoto.