Luigi Di Maio, leader riconosciuto e capo nominato del M5Stelle, ci ha abituato ai suoi repentini e ciclici ripensamenti. I ripensamenti sono repentini quando avvengono nelle prime 24 ore, ciclici a distanza mediamente di 3 giorni. Non deve, quindi, sorprendere più di tanto se ha cambiato opinione sul PD e su Matteo Renzi. Ha le sue ragioni.
Passando dalla propaganda alla realtà politica, il ragazzo di Pomigliano è costretto a crescere politicamente con gli stessi tempi che ci sono voluti per il ragazzo di Rignano sull’Arno. E tuttavia crea qualche legittima perplessità questo deficit di coerenza in chi si candida a governare un Paese di 60 milioni di abitanti con una storia di tutto rispetto nelle democrazie occidentali. E’ comprensibile che Luigi Di Maio, sull’onda dell’imprevisto risultato elettorale del 4 marzo, rivendichi la guida del governo ma una democrazia a base parlamentare vive di regole e di principi condivisi. E le regole dicono che la guida del governo spetta a chi ha i numeri necessari per avere la fiducia alle Camere. Se un aspirante premier i numeri non ce l’ha deve chiederli a chi è disposto a darglieli.
Il primo giro di consultazioni del capo dello Stato ha chiarito definitivamente che i numeri per presentarsi in parlamento non ce l’ha né il M5Stelle né il centrodestra unito, a prescindere dalla persona che potrà ricoprire la carica di presidente del consiglio. Se le cose stanno così non si comprende perché Di Maio continua a insistere che il premier deve comunque essere lui.
Il ragazzo di Pomigliano è maturato in fretta politicamente se c’è chi vede in lui il prototipo del democristiano della Terza Repubblica nella reincarnazione di un Giulio Andreotti o di un Arnaldo Forlani. Ma le cose stanno diversamente. Di Maio è leader e capo di tutto perché è lui che deve rispondere alla Casaleggio Associati che ha in mano la vera regia delle trattative. Di Maio è stato scelto, oltre che per il ruolo ricoperto di vice-presidente della Camera, per la sua fedeltà e obbedienza alla Casaleggio. E l’ordine a Di Maio di continuare a rivendicare il ruolo di premier viene dalla Casaleggio dove menti raffinatissime tessono la trama che deve portare il M5Stelle ad occupare la famosa “stanza dei bottoni” di nenniana memoria. Di Maio deve tentarle tutte prima di rassegnarsi a farsi da parte. E’ stato manovrato e indotto a porre veti a Berlusconi e a Renzi per compromettersi irreparabilmente e precludersi la possibilità di un accordo a venire.Ora che apre al PD,proponendo di “sotterrare l ‘ascia di guerra”, il veto contro Matteo Renzi gli si ritorce contro. Se accordo ci sarà col Pd,non potrà essere lui a siglarlo.Stesso discorso col centrodestra dove non si prescinde da Berlusconi. E l’accordo la Casaleggio lo vuole a tutti i costi perché c’è il bottino delle nomine in delicatissimi enti da incassare,a cominciare dalla Cassa Depositi e Prestiti.Il vero grande gioco dei palazzi romani.Nel frattempo tutto deve partire e portare a Di Maio perché,quando la Casaleggio avrà raggiunto l’accordo vero con chi spartirsi il potere,gli verrà chiesto di fare “un passo indietro” per amore del Movimento, per poter dare un governo al Paese e,soprattutto,per consentire alla Casaleggio di chiudere i giochi.Nulla di nuovo nella nascente Terza Repubblica dove bisogna saper distingure,come nella Prima e nella Seconda, “pupi” e “pupari”. Altro che Toninelli e la Grillo,rispettivamente capigruppo di Senato e Camera per il M5Stelle, che dettano condizioni e minacciano sfracelli convinti di poterlo fare. Altro che reincarnazione di Andreotti e di Forlani. E anche la “rete” si dovrà adeguare. E’ il gioco del potere.