RASSEGNA STAMPA

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CONVINTO DI POTER REPLICARE L’IMBROGLIO E IL FURTO DI RISORSE ALLE REGIONI DEL SUD, IL MINISTRO CALDEROLI CI RIPROVA CON L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA PER LA QUALE HA PRESENTATO UN DISEGNO DI LEGGE. CONTA DI RIUSCIRCI SCAVALCANDO IL PARLAMENTO E ATTRIBUENDO A STATO E REGIONI LE TRATTATIVE. IL PARLAMENTO, INSOMMA, CONSEGNATO A UN RUOLO NOTARILE. IL TRUCCO STA NELL’ASSUNTO CHE I GOVERNATORI DI DESTRA NELLE REGIONI NON POTRANNO SOTTRARSI AL VINCOLO DI MAGGIORANZA SE NON A COSTO DI RITORSIONI E SABOTAGGI. NON VOLENDO TENERE CONTO DELL’ALLARME ROSSO SCATTATO FRA I SINDACI DEL SUD, C’È DA CONSIDERARE IL MONITO DI MATTARELLA NEL MESSAGGIO DI FINE ANNO E LA PREOCCUPAZIONE DELLA MELONI DI PERDERE CONSENSI AL SUD. PIÙ SEMPLICEMENTE IL MINISTRO CALDEROLI ANDREBBE ESAUTORATO PERCHÉ RECIDIVO NEL VIOLARE IMPUNEMENTE LA COSTITUZIONE ( ART.3) SENZA TRALASCIARE L’INVENZIONE DELLA SPESA STORICA E LA “PORCATA”, PER SUA AMMISSIONE, DELLA LEGGE ELETTORALE CHE PORTA IL SUO NOME. PRIMA O POI IL SUD GLI PRESENTERÀ IL CONTO.

Articolo di Ilario Lombardo per “la Stampa”

È probabile che la riforma dell’Autonomia, questa riforma, sia nata già morta. O quasi. Perché, al di là delle generiche dichiarazioni di sostegno, è chiaro che la parte non leghista del governo non è entusiasta del lavoro del ministro Roberto Calderoli. Una freddezza che trapela anche dall’atteggiamento di Giorgia Meloni, molto attenta agli umori del Colle. Le parole in difesa della Costituzione nel discorso di fine anno del Capo dello Stato Sergio Mattarella sono lo scudo che la presidente del Consiglio intende usare con gli alleati. La premier aveva promesso un approccio «costruttivo», «non pregiudiziale», e a quello ha garantito che si atterrà. Ma – stando ad alcuni ministri di Fratelli d’Italia – ha anche precisato, e lo ribadirà nei prossimi giorni, che la riforma delle autonomie andrà fatta nello spirito della Costituzione che tutela l’unità dell’Italia, e che «nessuno andrà lasciato indietro», concetto su cui continua a battere da settimane. Non è piaciuta la fretta di Calderoli, la «sgrammaticatura» di portare il testo in Consiglio dei ministri senza prima un passaggio alla Conferenza Stato-Regioni, per un confronto più ampio e più ufficiale con tutti i governatori. Non è piaciuto anche – spiegano sempre da FdI- che nelle bozze in circolazione in queste ore sia poco chiaro che ruolo avrà il Parlamento nella dialettica tra lo Stato e le Regioni sulle materie di competenza. Né che sia scomparso il fondo di compensazione destinato al Sud che in qualche modo il predecessore di Calderoli, Maria Stella Gelmini, aveva previsto nel suo schema di riforma durante la difficile convivenza nel governo Draghi. Uno strumento che nel modello federale tedesco serve a non spaccare il Paese, a non lasciarne, appunto, indietro una parte. Ma che a quanto pare costa troppo e che la Ragioneria dello Stato, attraverso il ministro Giancarlo Giorgetti, avrebbe stoppato. Nella squadra dell’esecutivo ci sono due ex governatori del Mezzogiorno, entrambi di FdI, partito di storica tradizione centralista. Uno è il siciliano Nello Musumeci, e guida le Politiche del Mare e la Protezione civile, l’altro è Raffaele Fitto, a cui Meloni ha affidato il super-ministero che accorpa Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il coordinamento del Pnrr. Inutile dire che nutrono più di qualche dubbio sulla proposta di Calderoli. Fuori dalle dichiarazioni ufficiali, entrambi sostengono la stessa cosa: servirà tempo per approfondire il testo, e migliorarlo se sarà necessario. Più o meno vuol dire rinviare il più possibile a data da definirsi la sua approvazione. Da qui la sentenza di morte prematura che senza troppi sforzi, dentro FdI e ma anche in Forza Italia, danno per certa. La suggestione tutta meloniana di collegare la riforma dell’Autonomia differenziata, cara alla Lega, a quella della presidenzialismo, cara alla premier e agli azzurri, serve di fatto a questo, a trascinare per mesi un dibattito che potrebbe rivelarsi esplosivo per la maggioranza. Non a caso Calderoli, intuendo odore di trappola, ieri ha precisato quanto sia fuorviante vincolare una all’altra le due riforme. Tempi e procedure sono diversi. La prima è figlia di un semplice disegno di legge e si può ottenere a Costituzione invariata. Per la seconda, va cambiata la Carta, perché verrebbe stravolta l’architettura istituzionale della Repubblica, e per farlo vanno fatti maturare processi ben più lunghi. Sfruttando lo stesso ragionamento e capovolgendolo, i leghisti sono comunque pronti a una ritorsione proprio sulla riforma presidenziale, se Meloni dovesse affossare la riforma delle riforme per gli ex padani. Nessun altro ministro, però, dalla titolare delle Riforme Maria Elisabetta Casellati agli altri, crede che ci voglia così poco ad approvare l’Autonomia regionale come sostiene Calderoli. Tra la guerriglia delle opposizioni e i distinguo dei partiti alleati ci vorrebbe minimo un anno, un anno e mezzo. Tutti sanno che il tema non è tecnico. Ma squisitamente politico. L’equilibrio della coalizione tenuta a battesimo poco più di due mesi fa, necessita di prove continue. E questo per la Lega è il test più importante. Tanto più a un pugno di settimane dal voto per le regionali in Lombardia. Cruciale per il Carroccio e per il destino politico del suo leader. La fretta di Calderoli, se la spiegano così a Palazzo Chigi e i ministri di FdI: Matteo Salvini è assediato dagli scissionisti del Nord di Umberto Bossi e dal veneto Luca Zaia, spazientito per il federalismo atteso da troppi anni. «Più federalismo significa più responsabilità – dice Stefano Candiani, ex viceministro all’Interno – Sono certo che Meloni e la dirigenza di FdI abbiano chiaro come la sinistra voglia solo spaccare la maggioranza. E sono sicuro che i nostri alleati non cascheranno in questo gioco al massacro». Ma le ragioni della prudenza che animano la strategia di Meloni sono anche altre. Il partito e il governo rischiano di alienarsi un pezzo di Italia. Il Sud è terreno di battaglia fuori e dentro la coalizione. Da una parte c’è il M5S, al momento prima forza politica nel Mezzogiorno. Dall’altra, la competizione con Forza Italia che nelle regioni meridionali continua a tenere, nonostante l’enorme calo di consensi ovunque. Per non lasciare il dominio completo sul Sud a Giuseppe Conte, e non offrire una possibile arma di ricatto a Silvio Berlusconi, Meloni potrebbe rispolverare la vecchia dottrina centralista. Salvini non sarà contento. Ma questo è un tavolo a cui siede qualcuno che andrà scontentato.