(nella foto Giorgia Meloni)
LA MELONI OSTENTA SICUREZZA SULL’ESITO DELLA RIFORMA DEL PREMIERATO MA, A BEN VEDERE, È UN PERCORSO A OSTACOLI. POTREBBE ANCHE ESSERE UN BLUFF STUDIATO A TAVOLINO PER TENERE CONCENTRATO IL PARLAMENTO SUL PREMIERATO DISTOGLIENDOLO DAI PROBLEMI PIÙ CRITICI DEL GOVERNO. IL PRECEDENTE DEL REFERENDUM CHE MISE FUORI GIOCO MATTEO RENZI NON GIOCA A SUO FAVORE. NELLA MAGGIORANZA DI CENTRODESTRA CHE SOSTIENE IL GOVERNO NÉ FORZA ITALIA NÉ LA LEGA NÉ I PARTITINI DI SUPPORTO HANNO INTERESSE A CONCENTRARE I POTERI NELLE MANI DEL PREMIER ELETTO DIRETTAMENTE, IL QUALE NOMINEREBBE I MINISTRI E LASCEREBBE AL QUIRINALE I RUOLI DI RAPPRESENTANZA E DI PROTOCOLLO CONSERVANDO IL POTERE DI SCIOGLIERE LE CAMERE MA SOLTANTO SE, CADUTO IL GOVERNO, LA STESSA MAGGIORANZA NON RIESCE AD ESPRIMERE UN NUOVO PRESIDENTE. LA CHIAMANO “SFIDUCIA COSTRUTTIVA”. SONO IN MOLTI TUTTAVIA AD AVERE DUBBI SULL’ESITO DELLA RIFORMA. UNO CHE SE NE INTENDE, IL PRESIDENTE DEL SENATO LA RUSSA, VEDE IL PERCORSO PIENO DI INSIDIE. PER NON ANDARE AL REFERENDUM -SOSTIENE- BISOGNA COINVOLGERE L’OPPOSIZIONE FACENDO LE DOVUTE CONCESSIONI.UNA SOLUZIONE CONSOCIATIVA LONTANA DALLO SCENARIO ATTUALE. IN MEZZO CI SONO LE ELEZIONI EUROPEE DOVE LA MELONI SI GIOCA LA PARTITA DEL SUO RUOLO IN EUROPA.
Estratto dell’articolo di Marcello Sorgi per “La Stampa”
È un po’ troppo. La prima cosa che viene in mente, anche senza conoscere la bozza di riforma presidenziale di Meloni e Casellati, è questa. […] proporlo in questi termini, rischia di renderne più complicata l’approvazione in Parlamento. Vero è che qualche anno fa Renzi riuscì a convincere il Senato a suicidarsi, ma qui il progetto è diverso. Spostare dal Parlamento al popolo la scelta dei governi, e dal governo al premier la facoltà di sciogliere le Camere e chiamare quando vuole le elezioni anticipate, spogliando contemporaneamente di questa il Capo dello Stato, significherebbe mettere tutti i poteri nelle mani di una persona. […] è abbastanza facile intuire che la bozza della sua riforma sia costruita così proprio per poter rinunciare a qualche pezzo nel corso del lungo iter parlamentare e superare le eventuali riserve dei parlamentari della sua coalizione in vista dell’approvazione finale. È surreale infatti pensare un alleato come Salvini, che vive costantemente con un piede dentro e uno fuori dalla maggioranza, accettare supinamente che dopo cinque anni, più o meno, in cui Meloni sarà premier in forza della sua vittoria elettorale del settembre 2022, possa riproporsi per altri cinque: stavolta senza neppure rischiare di veder venir mano l’appoggio degli alleati, visto che la riforma metterebbe nelle sue mani le sorti della legislatura. E lo stesso ragionamento vale per i membri cosiddetti minori del centrodestra, che dal “premierato forte” sarebbero condannati alla scomparsa o a un futuro dal sub-corrente di Fratelli d’Italia. Poiché però Meloni sa bene che portare a casa la riforma per lei è a portata di mano, senza gli sfinenti negoziati e gli agguati dei franchi tiratori a cui Renzi, che aveva contro il Pd, fu costretto la volta scorsa, saprà scegliere i punti irrinunciabili, a cominciare dall’elezione diretta del capo del governo, e quelli meno, come il riequilibrio di poteri con il Quirinale o la strada da percorrere in caso di crisi di governo. Se solo si riflette sul fatto che in una delle tante versioni del testo […] la Lega insisteva per rendere automatico, in caso di dimissioni del premier, il subentro dei vicepremier, si può capire come la ricerca delle scorciatoie sarà dietro le quinte un lavorìo ininterrotto. E se anche Meloni ha messo sul tavolo il suo progetto per sottrarsi dai guai che la situazione economica potrebbe mettere sulla sua strada, non è detto che quella delle riforme istituzionali sarà una passeggiata. Inoltre, guardando avanti, dopo l’approvazione finale che grazie al meccanismo di garanzia previsto dall’articolo 138 della Costituzione (doppia votazione dello stesso testo in ciascuna delle Camere a intervalli non inferiori a tre mesi), ci vorranno 18-24 mesi per ottenerla. Dopo di che, si andrà al referendum, dato che il voto finale non otterrà la maggioranza dei due terzi. Torna, anche in questo caso, l’analogia con Renzi 2016. Nel senso che sarà inevitabile, per Meloni, accettare che il voto, più che sul testo della legge, si trasformi in un gigantesco sondaggio su di lei. Un plebiscito che, superata la prova delle Europee 2024, da cui si aspetta la conferma della vittoria nelle urne dell’anno scorso, rappresenti nel 2025 l’anticamera della consacrazione popolare a Palazzo Chigi. Un piano in tre tappe, una strategia tutta fondata sul rapporto positivo con gli elettori, che fin qui non accenna a mutare. Ma siccome il referendum costituzionale, Renzi insegna, di tutte le consultazioni è quella con il più alto numero di imprevisti, Meloni farebbe bene a metterli nel conto. Prudenza vuole: e così come il passaggio parlamentare del testo dovrà essere condotto con grande saggezza, anche il seguito referendario non dovrà essere considerato in partenza come una galoppata trionfale. Delle tante incognite, una può essere facilmente individuata fin d’ora. Per accordi di programma, la riforma del premierato dovrà essere approvata insieme con quella delle “autonomie differenziate” cara alla Lega. Un cambiamento atteso dalle regioni del Nord, ma altrettanto osteggiato da quelle meridionali, dove pure il partito di Meloni ha un largo seguito. Che potrebbe ridimensionarsi o mutare segno, in un voto di protesta. Cambiando anche le previsioni sul referendum.