(fonte settimanale Stampa Libera)
Un epilogo atteso
Cosenza non ce l’ha fatta, non è entrata nel lotto delle dieci contendenti alla candidatura di Capitale italiana della cultura 2026. La notizia mi rattrista, perché da cosentino avrei accolto con piacere la boccata di ossigeno che avremmo potuto avere, ma confesso che in più di un’occasione avevo espresso in tempi non sospetti a tanti amici e amiche – pur impegnati nel lodevole tentativo di sostenere la candidatura – le deboli motivazioni e la mancanza di un costrutto solido alla base della proposta. Intendiamoci, non intendo farne una colpa specifica a questa amministrazione, che pur avrebbe dovuto mostrare più cautela. Il degrado della nostra città ha radici molto profonde e mi permetto di riassumerle in poche parole: mancanza di amore per la propria città, assenza di cultura. Non è certamente con proclami – e nemmeno con un improvvisato richiamo alle comuni radici o con frasi a effetto – che si può sostanziare un’apertura di credito dopo decenni di disordine, incompiutezze, mancanza di analisi, approssimazione, distacco dalle proprie tradizioni, impoverimento del capitale umano. Ci avrebbe fatto comodo avere qualche soldo in più? Forse sì, ma poi per farne cosa? Non per un nuovo ospedale (i soldi già ci sono e giacciono fermi da tanti anni) degno di questo nome, ma per sognarne un altro, visto che l’Annunziata risale all’anteguerra e che nel frattempo continuiamo a beccarci con i vicini su dove debba essere costruito il nuovo. Gli stessi vicini con i quali si discute se fare un’agognata città unica senza condividerne al momento neanche funzioni e servizi! Come e cosa avremmo fatto vedere ai visitatori della nostra città e del nostro territorio? Li avremmo portati in giro su autobus privi di una gestione – non dico comprensoriale – ma almeno cittadina del trasporto pubblico? Con un ben assestato piano della circolazione e lungo percorsi tanto tortuosi che per collegare due punti distanti cento metri se ne devono percorrere mille? Come si può far finta che il fallimento AMACO non ci appartenga? E magari facendo vedere ai visitatori ciò che resta di una idea di metropolitana lungo un tracciato utile soltanto per improvvisati posteggiatori abusivi su un percorso che è poco più di una carrareccia? E dove portarli? Fra i cumuli di spazzatura abbandonata attorno e dentro il dismesso e centrale Hotel Centrale, oggi rifugio di disperatati senza tetto? Oppure lungo via XXIV Maggio, dove non si trova una sosta libera neanche a pagarla a peso d’oro? Far vedere loro come sono efficienti le piste ciclabili, almeno fino alla parte dove improvvisamente si interrompono perché chiuse da un campetto di calcio oppure muoiono sperdute verso Piazza Valdesi? Lasciamo stare San Vito e via Popilia, è il caso di far finta che non ci siano. Facciamo arrivare i turisti alla stazione? Quale? Quella in cui se arrivi di notte trovi qualche cane che abbaia e hai paura di trovarti solo? Quella, forse unica al mondo, dove arrivi e ti chiedi: ma dov’è la città? Quella dove non c’è uno straccio di collegamento con la mai dimenticata e bella vecchia stazione di Piazza Stazione? Oppure li portiamo alla stazione dei pullman a Piazza delle Autolinee, quella dove i residenti vivono nella quotidiana paura di essere aggrediti da bande di teppisti? Ma forse si potrebbe organizzare per loro un giro sui trenini storici della Calabro Lucana, magari sulla tratta Cosenza – Rogliano – Parenti – Soveria Mannelli – Catanzaro (chissà, forse si riaprirà sistemando la frana silana!), oppure sulla ripristinata tratta Cosenza – Camigliatello – san Giovanni in Fiore (oggi aperta solo saltuariamente d’estate fra Camigliatello e San Nicola). Però, ci sono sempre Corso Mazzini, via Roma e via Montesanto, chissà che l’imperante movida, segno ormai caratterizzante i sogni dei cosentini, non riesca a catturare anche i turisti nel vortice di serate magiche con in mano un bicchiere di superalcolico e davanti a un piatto di allettanti antipasti della cucina calabrese! O, addirittura, lasciar perdere Cosenza aldilà dei fiumi, come chiamavamo un tempo ciò che è la città dalla confluenza in poi. Del resto, si è capitale della cultura soprattutto per ciò che ci portiamo come tradizione! E, dunque, si abbatta finalmente l’ex Jolly – immondo biglietto d’ingresso della città vecchia – e si vada dritti al cuore della nostra storia. Dimentichiamo Alarico e il cavallo alla confluenza e torniamo alla nostra storia, quella dei romani, e si portino i turisti ad ammirare ciò che resta delle vestige romane di Piazzetta Toscano, sepolte da erbacce alte quanto i papiri del Nilo e celate allo sguardo sotto vetri sporchi quanto una cloaca napoletana! Oppure portiamo i visitatori lungo i resti arabi della città alla piazza Piccola? O perché no, al sacrario del vallone di Rovito, frequentato luogo di portatori sani di spazzatura! O al Castello, dove mi pare che ci sia ogni giorno una rievocazione storica dei fasti dell’epoca Normanna (!). Vogliamo poi salire alla parte nobile della città? Non mancano i passati splendori di Colle Pancrazio: lungo scalinate e portici abbandonati e transennati, roba che fanno soltanto venire le lacrime a coloro che hanno visto quei luoghi risplendere di vita nei palazzi dell’aristocrazia cittadina, proprio quella che li ha abbandonati da tempo. E del resto, cosa c’è rimasto di vita a Cosenza vecchia? Perché ha fatto questa fine Cosenza vecchia? Cosa si fa alla Biblioteca nazionale e in quella Civica (che fine faranno i libri). Quali attività della Fondazione Telesio rompono il silenzio dei vicoli, dei sopportici degli affacci abbandonati fra spazzatura e muri transennati? E il nostro teatro quali programmazioni alte promuove? Quali attività diffuse in città danno eco alla vita culturale? Oppure usiamo il brand di Cosenza città generosa: facciamo vedere ai visitatori i resti del Villaggio del Fanciullo di don Luigi o l’Ospizio dei poveri o ciò che resta della mensa francescana? C’è sempre l’alternativa di volgere tutto verso la Cosenza operaia: quella della Massa e di Cosenza Casali, della fonderia Zicarelli, della fabbrica del tannino, del mattonificio Mancuso e Ferro, dei marmisti, della vecchia centrale elettrica dello Spirito Santo, dell’ex pastificio Lecce, dei mulini! E comunque, alla fin fine, ci sono sempre i teatri e i cinema storici preservati (quali? quanti? con quali attività?). Oppure facciamo vedere i proficui e variopinti frutti nati dal fecondo rapporto che la nostra città ha maturato con la vicina (?) Università. Potremmo chiedere di prenderci qualche merito sulle eccellenze informatiche della Crati valley! E vi prego, non tiriamo in ballo lo stato di partenza di altre città che hanno meritato l’ambito riconoscimento. Matera ebbe sin dagli anni cinquanta del secolo passato leggi speciali (Legge Colombo) con l’accordo di personalità del calibro di De Gasperi e Togliatti e, comunque, era un vero e proprio gioiello ben prima che si mettese mano ai sassi che, in ogni caso, sono un unicum mondiale.Dobbiamo approfondire le ragioni dell’abbandono e lo faremo un’altra volta, per ora meglio fermarci qui. È vero, il disastro non è solo di questa amministrazione, è antico, è una vera e propria damnatio memoriae, si è lasciato il campo a chi questa città l’ha solo sfruttata. Il tempo s’è preso le sue rivincite e, alla fine, penso sia meglio essere stati bocciati: chissà riusciremo a imparare la lezione e a ripartire daccapo. Forse sarebbe stato meglio mediare fra il sogno e le cosiddette boutade. Cosenza da tanto tempo non è più l’Atene del Sud e bisogna partire proprio dal capitale umano: certe volte le giuste bocciature valgono più di una promozione non meritata.
Paolo Veltri