IL SUO PERCORSO POLITICO ED IL SUO RAPPORTO COL FASCISMO MUOVENDO DALLA STORIA DELLA SUA FAMIGLIA. SULLA STATUETTA DI MUSSOLINI, “ESILIATA” IN CASA DELLA SORELLA, IRONIZZA.
Francesco Verderami per corriere.it – Estratti
(…)
«A Tatarella ero legatissimo. Facevamo anche le vacanze insieme». E proprio durante una vacanza accadde un episodio che La Russa serba come una lezione: «Era il 1990, stavamo andando a San Gallo, in Svizzera, dove avevo studiato per 5 anni in collegio. E nel tragitto da Milano, proposi una piccola deviazione. Quel giorno l’associazione che si occupa delle onoranze ai caduti della Repubblica sociale — riconosciuta dal Comune di Milano — avrebbe deposto come tutti gli anni un mazzo di fiori nel luogo in cui era stato ucciso Benito Mussolini. Allora dissi a Pinuccio: “È solo a tre chilometri, vogliamo andarci?”. Non l’avessi mai detto».
Cosa accadde?
«Tatarella si infuriò, perché a suo giudizio nella nostra comune volontà di costruire una destra pluralista, moderna ed europea, non c’era più spazio non solo per il fascismo ma anche per gesti che richiamassero il passato. “Ma portano solo dei fiori”, insistetti. E lui: “Non si capirebbe. Levatelo dalla testa”.
Tatarella era stato l’ideologo, se così si può dire, della parte più avanzata del Movimento sociale italiano: mi riferisco ai giovani che volevano costruire una destra non più legata ai richiami del fascismo ma radicata nel presente e protesa verso il superamento del nostalgismo. Era il movimento giovanile che propugnava la necessità di un partito inserito nel confronto politico».
(…) Per tanto tempo è stata strumentalmente creata una barriera che ha tenuto distanti molti elettori di destra, i quali non tollerano di sentirsi dare del fascista».
E magari non possiedono nemmeno un busto del Duce.
«Terrò una conferenza stampa appena arriveremo alle duecentomila citazioni del busto che avrei a casa. Ci siamo vicini. E per la cronaca quel busto l’ho esiliato da mia sorella ed è una opera d’arte ereditata da mio padre e mai esibita pubblicamente».
Oltre la forma, nella sostanza quando ha smesso di sentirsi fascista?
«Devo partire dalla storia della mia famiglia, dove mio padre era stato fascista e rimaneva legato al fascismo, anche se non ne immaginava minimamente una riproposizione. Mio fratello ha militato in un partito antifascista come la Democrazia cristiana, e io sono cresciuto avendo a cuore la libertà in tutte le sue declinazioni. È un valore che non ho mai dovuto elaborare perché non ho mai pensato diversamente. Ricordo le campagne elettorali di mio padre e il gusto della libertà che assaporavo. Poi arrivò il ’68, la violenza dei cosiddetti nuovi partigiani, il loro slogan secondo cui “uccidere un fascista non è un reato”. Con loro non vorrò mai essere accomunato. È allora che iniziò l’antifascismo ideologico come viene inteso adesso».
Ma lei quando ha smesso di sentirsi fascista?
«Nel 1995 a Fiuggi facemmo i conti con il fascismo e fui tra i protagonisti di quella svolta. Ma il mio atteggiamento forse troppo benevolo verso il Ventennio era già mutato da tempo, fin dai 18 anni, dopo i miei studi all’estero dove avevo avuto amici di tutte le etnie e di tutte le religioni».
E il momento in cui avvertì di «essere cambiato»?
«Fu quando mi resi conto delle leggi razziali. Da ragazzo non me ne aveva parlato quasi nessuno, lo ammetto. Poi in me scattò qualcosa, che fu amplificato dalla conoscenza della comunità ebraica, dalla partecipazione alla loro vita, alle loro cerimonie. Al loro dolore.
E non fu un fatto episodico ma un processo. Il mio primo viaggio a Gerusalemme — dove portai i miei figli allo Yad Vashem — avvenne in forma privata insieme a Walker Meghnagi, ora presidente della Comunità ebraica di Milano. Ero amico di suo padre, Isacco, una persona speciale, tra i massimi esponenti della comunità. Ecco. Il mio giudizio sul fascismo ha come punto di riferimento lo storico antifascista Renzo De Felice, molto più attendibile di quanti oggi si improvvisano storici».
Ma la senatrice a vita Liliana Segre si è chiesta, preoccupata, se verrà ancora cacciata dal suo Paese.
«Con lei ho da tempo un ottimo rapporto».
Allude al fatto che il marito militò nel Msi?
«No, non ho mai parlato del marito che ho conosciuto e che era e restò un antifascista, pur candidandosi da indipendente nelle nostre file».
Allora perché non accetta di definirsi antifascista?
«Perché non accetto di rispondere come una scimmietta ammaestrata, oltre che per il ricordo degli anni Settanta. Mi riconosco nei valori della libertà, del rifiuto del razzismo e dell’antisemitismo, seguo i dettami della nostra Costituzione.
Per difendere tutti i diritti garantiti dalla nostra Carta sarei pronto a dare la vita. Ho servito e servo la Costituzione: prima di essere presidente del Senato, sono stato anche ministro della Difesa. E di quel periodo rammento il reciproco rispetto con l’allora capo dello Stato Napolitano. Una cosa che mi onora. Quando ero al governo una volta mi disse: “Ignazio vedo più volte te di mia moglie”. Fu nella consuetudine che crebbe da parte mia la stima verso di lui».
In che senso «crebbe»?
«Riconosco che all’inizio ero un po’ prevenuto perché ritenevo che, nonostante fosse un migliorista, venisse pur sempre dal Partito comunista italiano. “Chissà come tratta le Forze armate”, pensavo. Il migliorista ai miei occhi si è rivelato il migliore in questo campo: sempre attento al valore dei nostri uomini in divisa. E questo ha accresciuto la mia stima nei suoi riguardi».
Lei era ministro della Difesa ai tempi dell’intervento in Libia.
«Fu un passaggio molto delicato. Silvio Berlusconi era contrario alla missione contro Gheddafi: “A quell’uomo ho dato la mano”, diceva. Napolitano aveva una posizione opposta e sulla sua stessa linea era il ministro degli Esteri, Franco Frattini.
Finché non arrivò la risoluzione dell’Onu, io rimasi schierato con il presidente del Consiglio. Poi… Diciamo che il capo dello Stato si fece sentire e anche Berlusconi accettò l’ineluttabile. Più in generale Napolitano ha proseguito una tradizione che non aveva inaugurato lui».
Che vuol dire?
«Che dal Quirinale ha avuto un approccio interventista sulle questioni politiche. Non era una figura notarile. Ma non era come Oscar Luigi Scalfaro, non aveva cioè la smania di costruire maggioranze diverse da quelle emerse dalle urne. Certo, non vedeva in Silvio Berlusconi la personalità giusta per guidare il Paese in quella fase politica. L’ultima volta andai a trovarlo insieme al presidente del Consiglio. Il loro colloquio fu complicato. Napolitano disse poi a Fini: “Meno male che c’era La Russa a tenere a bada Berlusconi”».
Qual era il tema della discussione?
«Non ricordo il tema, ricordo un momento di grande tensione durante un colloquio già molto animato, in cui mi limitai a sostenere Berlusconi cercando però di smussare i toni troppo bellicosi».
Avvenne in prossimità della crisi di governo del 2011?
«Era certamente la fase finale del governo. E pochi giorni dopo il presidente della Repubblica con me si aprì: “Cercate di trovare una soluzione…”. Il suo atteggiamento venne additato come fosse quello di capo dell’opposizione. Credo che in realtà auspicasse non un ribaltone ma un cambio di presidente del Consiglio. Cosa che non condividevo.
Forse fu questo che portò Fini a certe scelte che considerai sbagliate. Berlusconi è sempre stato per me un grande riferimento ma con Gianfranco non ho mai interrotto i rapporti. E penso che — nonostante i suoi errori — resti insieme a Tatarella la personalità senza la quale la destra moderna non sarebbe nata