1. LA GRANDE RESA DEL GOVERNO UN ALTRO ANNO IN CELLA POI SI PUNTA ALL’ESPULSIONE
Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica”
C’è un suono che il Governo italiano dovrebbe tenere sempre bene a mente quando parla di Ilaria Salis: il rumore delle catene e del guinzaglio a cui era legata la docente. In quel tintinnare […] c’è infatti tutta l’ipocrisia di chi oggi dice: «Sbagliato politicizzare» (il ministro degli Esteri, Antonio Tajani) […] Ipocrisia perché — se n’è avuto contezza ieri — la libertà di Ilaria è una questione tutta politica. È politica la scelta di portarla in aula in catene, nonostante tutte le polemiche, perché arriva direttamente dall’amministrazione giudiziaria, che dipende dal ministero della Giustizia. […] È stata inoltre politica la scelta del ministero della Giustizia italiano di non depositare poche righe […] in cui si offrivano garanzie logistiche per gli arresti domiciliari: sarebbero forse bastate per convincere il giovane giudice Jozsef Sòs a non sostenere […] che Ilaria Salis non poteva scontare gli arresti a casa perché «pericolosa, visti i suoi precedenti penali in Italia e potenzialmente a rischio fuga». Ed è soprattutto politico quello che accadrà da questo momento in poi. Seppur nascosto dietro il solito lessico istituzionale, la posizione del Governo è chiara: «Ci dispiace per le catene, ma decide l’Ungheria ». Tradotto: non faremo niente. La parabola che la Farnesina immagina è questa: un processo che dovrebbe finire nella migliore delle ipotesi entro la fine del 2024. Salis verosimilmente sarà condannata («ci sono video chiarissimi», continuano a ripetere off the record al Governo come se la questione fosse di merito e non il rispetto delle garanzie per una ragazza che rischia più di venti anni di carcere). A condanna incassata si punta all’espulsione della ragazza, come la legge ungherese prevede, per scontare il resto della pena in Italia. Questo significa che Ilaria dovrebbe restare almeno un altro anno nelle prigioni ungheresi. E che tutto debba essere ancora lasciato al buon cuore di Orbán e alle regole di un sistema che, tra le altre cose, prevede per esempio che la detenzione domiciliare valga un quinto di quella in carcere: per assurdo, se condannata a 10 anni, la Salis dovrebbe trascorrere 50 anni ai domiciliari per espiare la pena. […] Resta il percorso di questo anno, però: per esempio come per nove mesi il Governo italiano non abbia mosso un dito con l’amico Orbán; che l’ambasciata a Budapest abbia affidato il dossier a dei funzionari o che abbia ricevuto il padre di Ilaria soltanto dopo che Repubblica ha denunciato il caso. Non si tratta di “politicizzare”. Ma di raccontare la verità.
2. ILARIA, DAI SORRISI ALLA SFIDA: «MOSTRATE LE FOTO IN MANETTE» POI IL VERDETTO E LA DELUSIONE
Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Il presente e il futuro di Ilaria Salis sono ancora sbarre e catene. […] C’è sconforto pensando all’idea che potevano arrivare gli arresti domiciliari nell’alloggio di Budapest visitato giusto ieri sera dai genitori, dov’era tutto pronto insieme alla cauzione da 40.000 euro da versare allo Stato ungherese. Invece niente, Ilaria torna in galera, sempre tenuta al guinzaglio e ai piccoli passi consentiti dai ferri che le uniscono i piedi, in mano una borsa di tela con qualche carta ed effetto personale.[…] Quando arriva in aula, i capelli lunghi sciolti sulla camicetta a fiori, ha già scritto e firmato la dichiarazione che autorizza «la stampa italiana a pubblicare immagini che mi ritraggono con le manette e tutte le catene che eventualmente decideranno di mettermi», sapendo che così sarebbe andata. È la sua risposta, e un po’ anche la sua sfida, alla legge che prevede questi vincoli ma anche il divieto di mostrarli senza il consenso dell’interessato. Che tutti vedano, replica lei. Soprattutto in Italia, e soprattutto chi sta al governo e aveva consigliato di seguire la strada della richiesta dei domiciliari in Ungheria, subito sbarrata dal giudice Jozsef Sos. Prima di decidere, il giovane magistrato fa ad Ilaria alcune domande, a cui l’imputata risponde attraverso l’interprete. «Ho una laura magistrale in lettere classiche — dice a voce bassa sempre attenta a non andare oltre il consentito — non sono sposata e non ho figli. Prima di entrare in carcere ho insegnato in un liceo e guadagnavo 1.400 euro al mese. Vivevo da sola, e stando qui ho dovuto rinunciare a offerte di lavoro e a un concorso per un posto a tempo indeterminato. Ho piccoli precedenti penali in Italia con pena sospesa, ma si tratta di condanne per reati di più di dieci anni fa, talmente lievi che non è previsto il carcere». Quei «piccoli precedenti» saranno uno dei motivi citati dal giudice per negare i domiciliari. Insieme al riassunto delle precedenti, stringate dichiarazioni in cui Ilaria ha negato le accuse per cui è detenuta: partecipazione a tre aggressioni che hanno provocato lesioni «potenzialmente mortali» alle vittime. È questo che, con foga, ricorda il pubblico ministero donna che chiede di respingere ogni misura alternativa al carcere per un’imputata di reati così gravi, sospettata di far parte di un’associazione criminale transnazionale che potrebbe fuggire in ogni momento. […] L’insegnante italiana assiste a questo botta e risposta e forse intuisce che la fiducia confidata ai genitori nella visita del giorno prima non era così fondata. All’avvocato che le pone alcune domande nella speranza di convincere il giudice risponde con sicurezza: «Sono disposta a indossare il braccialetto elettronico e rimanere nella casa individuata per gli eventuali arresti domiciliari, nonché a collaborare con le autorità ungheresi». Poi precisa: «Per le condizioni di custodia». Aggiunge che le è stato proposto di lavorare a distanza come volontaria per una Onlus, cosa che potrebbe fare dagli arresti domiciliari: «In Italia, durante la pandemia, l’ho già fatto». Seduti su una panca alle sue spalle, i genitori ascoltano e sperano. Ma quando il giudice illustra la propria decisione — senza ritirarsi nemmeno un minuto in camera di consiglio, dando così l’impressione di una scelta già fatta — e il traduttore dice «richiesta respinta», sull’ingegner Roberto Salis ripiomba il pessimismo dei giorni peggiori. Ha un moto di stizza che non riesce a celare e si precipita fuori dall’aula, a sfogare da solo il momento di rabbia. Poi si riaccomoda accanto alla moglie e a fine udienza eccolo di nuovo vicino alla figlia incatenata prima che la portino via. Sorridente lei, molto meno lui: «Ora ci inventeremo qualcosa, ma io devo tirarla fuori da lì e lo farò».