RASSEGNA STAMPA – ROMANO PRODI, CHE RIMANE UNA VOCE AUTOREVOLE DEL CENTROSINISTRA, INTERVIENE SUL VOTO FRANCESE E LE POSSIBILI CORRELAZIONI COL QUADRO POLITICO ITALIANO.

CONFERMA CHE PER LUI LA DECISIONE DI MACRON E’ STATO UN AZZARDO MA LA LEGGE ELETTORALE FRANCESE GLI HA DATO RAGIONE. NON VEDE ANALOGIE CON IL CASO FRANCESE E CONSIDERA PREVALENTE IL PROGRAMMA DI COALIZIONE RISPETTO AL PREVALERE DI UN PARTITO SUGLI ALTRI TENUTO CONTO CHE IL PD OGGI ESPRIME NEI SONDAGGI IL DOPPIO DEI VOTI DEL M5S IN SECONDA POSIZIONE. UN PROGRAMMA CON OBIETTIVI IN CUI TUTTE LE COMPONENTI DEL CENTROSINISTRA SI POSSONO RICONOSCERE.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” – Estratti

«La particolarità della situazione italiana è che il Pd ha un ruolo speciale rispetto agli altri alleati, avendo più del doppio dei consensi del secondo partito della possibile alleanza. Però deve capire che una coalizione ha le sue regole e che non ci deve essere la tentazione del partito unico o dominante. Si tratta di una consapevole assunzione di responsabilità. Certo non ci può essere spazio per radicalismi e ali estreme».

In questa intervista esclusiva al Corriere , Romano Prodi ragiona a tutto campo sull’esito delle elezioni in Francia, la sinistra in Italia, il futuro dell’Europa e il ruolo di Giorgia Meloni nei prossimi assetti dell’Unione.

Professore, partiamo dal risultato francese. Qual è la sua lettura?

«In primo luogo, bisogna leggerlo in francese. È un tipico risultato che viene dalla legge elettorale e da tutto il retaggio della storia politica della Francia. Però una cosa molto semplice la dice: quando c’è una proposta estrema, pro o contro l’Europa, pro o contro l’estrema destra, la maggioranza vota per l’Europa e contro l’estrema destra.

Da questo punto di vista Macron ha vinto la sua scommessa, ma io continuo a pensare che avrebbe fatto meglio a non farla. È stato un apprendista stregone, il secondo round ha di molto ridimensionato il suo ruolo».

Detto questo, è un voto che ci fa tirare un sospiro di sollievo in Europa. È d’accordo?

«Io sono contentissimo del risultato, ora però bisogna vedere che governo ne verrà fuori. Quale programma può mettere insieme questa nuova Francia? Il programma precedente, quello di Macron, non mi soddisfaceva ma lo capivo. Ora c’è grande confusione. Le Monde ha proposto un gioco ai lettori, costruire la loro maggioranza preferita, un puzzle quasi impossibile. Mi domando se la saggezza che ha portato a una grande coalizione repubblicana contro l’estrema destra, sia in grado di diventare operativa.

Se rimaniamo ai veti, non si va lontano. Il discorso di Mélenchon la sera delle elezioni mi ha spaventato, non c’era una parola di appeasement , di pace, di accordo, nessuna mano tesa verso Macron i cui voti sono indispensabili. Ecco, qualcosa deve cambiare in Francia. Quindi bella vittoria, ma molto complicato tradurla in pratica. Il messaggio importantissimo è che Le Pen non è invincibile».

Si discute in questi giorni se dal voto in Francia venga una lezione per la sinistra italiana. È così?

«No. Non dobbiamo copiare i modelli altrui. In Italia abbiamo un altro cammino da percorrere. C’è una forza riformista notevole e io vorrei che questo riformismo diventasse abbastanza grande da avere un ruolo di governo. Bisogna allargare, avere grandi ali e soprattutto un programma riformista condiviso».

E quali sono i suoi cardini?

«Su casa e sanità esiste una naturale identità di vedute, su scuola e fisco si può trovare una linea comune perché la direzione è la stessa. Il Paese è spaccato per quanto riguarda la distribuzione del reddito, ormai intollerabile. Perfino il governatore della Banca d’Italia dice che dobbiamo aumentare i salari perché così le famiglie non reggono. Siamo al di là di ogni immaginazione. Credo sia possibile un lavoro serio, interpellando anche la base: non esistono più le discussioni nei partiti e invece bisogna ripristinarle.

Possiamo anche pensare alle primarie, ma io vorrei prima un grande dialogo in Rete sui bisogni fondamentali del Paese. Se oggi rifacessi il mio viaggio in pullman, alle fermate non si presenterebbe nessuno o quasi.

Oggi il bus è la Rete. Parliamo con i cittadini e facciamoli esprimere sulle cose fondamentali. Andiamo avanti come quando abbiamo costruito un’alleanza in condizioni che sembravano impossibili, quando eravamo molto più frammentati di adesso. Per favore, non costruiamo un’alleanza di governo sui vertici. Basta. Non servirebbe a nulla. Facciamola su un programma condiviso, che sostituisca i bonus con la politica giusta».

Condiviso anche sulla politica estera, dove invece la sinistra registra profonde divisioni, a cominciare dall’Ucraina?

«Le divisioni della sinistra sulla politica estera, dall’Ucraina all’Europa, sono infinitamente inferiori a quelle della destra che ci governa. Che in una coalizione ci siano differenze anche importanti, è normale. Ma nella maggioranza attuale ci sono addirittura linee opposte. Sull’Ucraina mi pare che le differenze a sinistra siano più componibili di quella a destra: sul diritto all’indipendenza e alla sovranità di Kiev il centrosinistra è d’accordo».

In Europa è in corso la partita delle nomine, si sta consolidando il cordone sanitario verso l’estrema destra. È la strada giusta? E come giudica l’azione di Giorgia Meloni?

«La maggioranza si fa con le forze che ci sono. Le elezioni francesi paradossalmente rendono il pacchetto di nomine proposto — von der Leyen, Costa, Kallas — il più realistico possibile. Poi nel voto segreto ci possono essere dei franchi tiratori. Vede, i franchi tiratori si dividono in due tipi. Ci sono quelli che hanno in antipatia il candidato e questi sono inconvincibili…».

Parla per esperienza personale?

«Certo. Io conoscevo benissimo la faccia di chi non mi avrebbe mai votato nell’elezione per la presidenza della Repubblica. Ecco, questo tipo di franchi tiratori non voterà mai la von der Leyen. E poi ci sono i franchi tiratori che pensano a soluzioni alternative. Questi dovrebbero diminuire dopo le elezioni in Francia.

In linea teorica, le candidature proposte dovrebbero essere votate dalla maggioranza che le ha espresse. Se ciò avviene, Giorgia Meloni che si è astenuta su von der Leyen, è fuori gioco. La sua scommessa potrebbe darle più forza solo se il suo voto fosse necessario».

Fuori gioco significa che l’Italia peserebbe meno nella divisione degli incarichi fra i commissari?

«No. Che l’Italia abbia un commissario di peso è ovvio. Lo ha sempre avuto. Poi sarà Meloni a spingere per Economia, Concorrenza, Bilancio o Agricoltura. Su questo piano non vedo rischi di emarginazione. Vedo invece il rischio che l’Italia non si segga ai tavoli delle decisioni informali insieme a Francia e Germania, fatto indispensabile perché quelli sono sempre stati i due motori trainanti».

Anche se in questa fase girano a vuoto.

«Proprio per questo sarebbe ancora più utile un’Italia protagonista in Europa. Ma non si può fare da collante astenendosi. È come dire facite vobis. Invece una politica attiva significa entrare nello spirito europeo. Complicato per la nostra destra! Per questo motivo la nostra premier si astiene».

Nel frattempo, abbiamo un problema Orbán in Europa.

«Quando si fanno regole folli, si paga il fio. La regola dell’unanimità e la presidenza a rotazione appartengono al postmoderno. Oggi ne paghiamo le conseguenze: quello è il presidente e fa gli affari suoi. È una cosa orrenda, non è democrazia. Orbán usa il ruolo e il potere che gli abbiamo dato per andare in giro a dire le cose che ha sempre detto e che sono in totale rottura con l’Europa.

Ma la colpa è nostra. Fino a quando non la finiremo con l’unanimità, avremo sempre degli Orbán in casa, che approfittano della nostra follia. Inutile girarci attorno: voto a maggioranza, difesa comune, atteggiamento francese sull’arma nucleare e seggio all’Onu, aumento del bilancio europeo, completamento del mercato unico, queste sono le cose che dobbiamo affrontare. Ma ci rendiamo conto che discutiamo sul 2% delle spese per la difesa, senza realizzare un’industria e un esercito comuni?».