MANGIATO IL PANETTONE IL DIBATTITO INTERNO AL PD IN VISTA DEL CONGRESSO AVRÀ UNA ACCELERAZIONE MA NON UNA SINTESI DELLE POSIZIONI. PIU’ CHE LA RICERCA O RIPROPOSIZIONE DI UNA IDENTITÀ PERDUTA SI RUOTA INTORNO ALL’INELUDIBILE ALLEANZA COL M5STELLE PER BATTERE IL CENTRODESTRA MENTRE CI SI DIVIDE FRA RIFORMISTI E CONSERVATORI GUARDANDO A SINISTRA. TORNANO IN GIOCO I VECCHI FEUDATARI COME D’ALEMA IMPEGNATO A METTERE AI MARGINI GLI EX-RENZIANI. TUTTO QUI. LE INVOCATE ” PERIFERIE” A SINISTRA POSSONO ATTENDERE.
Articolo di Francesco Verderami per il “Corriere della Sera”
Il primo compito che toccherà al futuro segretario del Pd non sarà riuscire a competere con il centrodestra ma tenere unita la sinistra. Più che una missione sembra un’impresa. Quasi fossero stati colpiti da un sortilegio oscuro, coloro che volevano democratizzare il M5S si stanno grillinizzando. Anzitutto negli atteggiamenti. I democratici di oggi somigliano infatti ai Cinque Stelle di ieri, quelli di Conte e Di Maio, che erano privi di una linea comune, rissosi e in procinto di dividersi. Ogni dichiarazione, ogni passaggio politico nel Pd dà la percezione di un’imminente scissione tra chi propone un rilancio del «riformismo» e chi spera di «riaccendere la scintilla della Rivoluzione d’ottobre». Perfino il dibattito sulla riscrittura del Manifesto costituente del partito viene drammatizzato, tanto da far vedere a Parisi – l’inventore dell’Ulivo – una «riedizione del congresso di Livorno», dove nel 1921 si celebrò il divorzio tra socialisti e comunisti. Il problema del Pd non sono né il calo nei sondaggi né la competizione per la segreteria: sono i toni della dialettica interna. Il modo in cui Provenzano irride i «sedicenti riformisti che d’ora in poi è meglio chiamare conservatori», fa capire che «d’ora in poi» si procederà con l’antica liturgia della scomunica e della delegittimazione. E quando il sindaco di Bergamo Gori dice che sarebbe pronto a lasciare il Pd se vincesse Schlein, preannuncia che non si assoggetterà al patto di cui si parla al Nazareno: l’accordo tra Prodi, Letta, Franceschini e un pezzo di sinistra interna, per mettere definitivamente ai margini gli ex renziani e prepararsi a un’intesa con Conte. Raccontano che Guerini stia insistendo con i compagni che sono stanchi di essere marchiati con la lettera scarlatta. È vero, poco prima delle elezioni aveva spiegato che «se il Pd dovesse scendere sotto il 20% sarebbe condannato», ma in queste ore chiede di «lavorare per l’unità»: «Certo bisogna capire se si vuole ricostruire il partito o dare vita alla Quinta Internazionale…». Perché i segnali ostili sono chiari. A partire dal discorso pronunciato da Speranza durante i lavori della Costituente, con quell’indice puntato contro il Manifesto «neo liberista» del Pd (a cui peraltro contribuì nella stesura anche Mattarella). L’idea degli scissionisti di Articolo 1 – spiega un dirigente dem – non è rientrare nel partito abbandonato negli anni del renzismo: «Loro non vogliono rimettersi con noi. Loro vogliono provare il colpaccio»: spaccare cioè il Pd e poi coalizzarsi con il M5S, «secondo il disegno di D’Alema». Ecco il clima di sospetto, che d’altronde aleggiava da tempo. E le forzature ideologiche operate sul profilo del partito non fanno che rafforzare la tesi di chi teme una «mutazione genetica»: perché una forza nata con la «vocazione maggioritaria» così diventa un’altra cosa. Anche se il processo era già in atto, visto che da tempo nelle dichiarazioni dei suoi dirigenti, il Pd non veniva più definito di «centrosinistra». Lo stesso segretario, per tutta la campagna elettorale, in ogni dichiarazione ha usato solo il termine «sinistra». Come se il partito fondato da due anime ne avesse smarrita una per strada. Ecco perché a prescindere da chi subentrerà a Letta – Bonaccini, De Micheli, Ricci, Schlein – sarà un’impresa recuperare l’unità se non c’è una visione comune sulla identità. Perciò il Pd di oggi sembra il Movimento di ieri. Quello di Conte e Di Maio. Prima della scissione.