RASSEGNA STAMPA

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SE IL MINISTRO CROSETTO, VICINISSIMO A GIORGIA MELONI, HA FONDATE RAGIONI PER POLEMIZZARE CON CRISTINA LAGARDE, PRESIDENTE DELLA BCE, SUCCEDUTA A MARIO DRAGHI, LO SAPREMO QUANDO CI VERRÀ PRESENTATO IL CONTO DEGLI INTERESSI CHE ANDRANNO A MATURARE SULLE EMISSIONI DEI NOSTRI TITOLI DI STATO. INTANTO È CERTO CHE L’ AUMENTO DEI TASSI DECISO DALLA BCE IMPATTA NEGATIVAMENTE LA NOSTRA ECONOMIA GIÀ ALLE PRESE CON EMERGENZE IRRISOLTE. DA QUI LA CRITICA ALLA LAGARDE DI PRENDERE DECISIONI SENZA CONSIDERARE LE CONSEGUENZE DELL’AUMENTO DEI TASSI PER LE ECONOMIE DEI SINGOLI STATI. CROSETTO È CONSAPEVOLE CHE LA MELONI E IL GOVERNO È SOPRATTUTTO CON BRUXELLES CHE DEBBONO FARE I CONTI.

Articolo di Gianni Trovati per “il Sole 24 Ore”

Qual è l’anello debole dell’economia europea? «L’Italia», hanno risposto in modo quasi unanime gli esperti interpellati dal Financial Times. Bastano pochi numeri a spiegare le ragioni di tanta concordia, e le motivazioni alla base del pressing crescente che si avverte in Italia contro la prospettiva di un nuovo aumento dei tassi da parte della Bce. I numeri, come sempre, sono quelli del debito pubblico. L’Italia, spiegano le Linee guida sulla gestione del debito pubblico 2023 preparate dal Tesoro, dovrà emettere nei prossimi 12 mesi titoli a medio-lungo termine fra i 310 e i 320 miliardi. La previsione considera l’erogazione puntuale delle rate attese per il Recovery (i 55 obiettivi del secondo semestre 2022 sono ora sotto l’esame delle autorità comunitarie insieme alla lettera che chiede il via libera alla terza rata Pnrr), senza le quali l’ammontare dei BTp di quest’ anno può salire verso i 350 miliardi. Cioè ancora più lontano dai 278 miliardi collocati nel 2022. Considerando anche Bot e altri titoli a breve, il livello massimo delle emissioni definito dalla legge di bilancio si attesta a 510 miliardi: 86 in più dei 424 miliardi totali dell’anno scorso. Il tutto avviene mentre l’era del debito (apparentemente) gratuito si è chiusa definitivamente. I BTp del 2022 hanno registrato un costo medio all’emissione dell’1,71%, cioè oltre 17 volte il minimo storico dello 0,1% (nel 2021 era allo 0,59%). Per trovare un livello più alto bisogna risalire al 2,08% del 2013, nell’Italia appena uscita con affanno dalla crisi del debito sovrano che a fine 2011 portò alla crisi del governo Berlusconi e ai provvedimenti d’urgenza avviati dall’esecutivo Monti con l’introduzione dell’Imu, la riforma Fornero delle pensioni e così via. Questa dinamica ha imposto in questi mesi continui aggiornamenti al rialzo nei calcoli sul peso degli interessi sul nostro bilancio pubblico. Nel 2023-2025, secondo il Def approvato lo scorso aprile dal governo Draghi, l’Italia avrebbe dovuto pagare per interessi 186,066 miliardi. Nelle tabelle allegate alla legge di bilancio, che poggia anche su oltre 21 miliardi di deficit aggiuntivo rispetto al tendenziale, il conto sullo stesso triennio sale invece a 270,207 miliardi, con un aumento del 45,2% che in termini nominali vale 19,4 miliardi sul 2023, 30 sul 2024 e 34,7 sul 2025. Per capire la dimensione del problema, e l’entità degli spazi fiscali che si chiudono con la corsa della spesa per interessi, basta considerare che questo costo aggiuntivo vale solo nel 2023 il quadruplo dei fondi stanziati dalla manovra per il taglio al cuneo fiscale, mentre se si guarda al 2024 e al 2025 il rapporto sale rispettivamente a sei e sette volte. La differenza rispetto al 2011, e qui sta il punto, è però sostanziale. Perché ad alimentare l’onda del costo del debito non è la percezione di un rischio politico italiano, come mostra il fatto che il programma di finanza pubblica del governo Meloni (e la sua continuità con le politiche di Draghi) è stato accolto due mesi fa con una discesa di spread e rendimenti. Il motore della spesa è stato il cambio drastico di politica economica prodotto dall’inflazione, che al rialzo dei tassi accompagna l’inversione di rotta dall’acquisto dei titoli di Stato alla riduzione del portafoglio da parte dell’Eurosistema. Il nuovo scenario aumenta tutti gli interessi sul debito, ma ha un effetto più pesante sui Paesi più indebitati. La quota aggiuntiva di rischio prodotta dai numeri del bilancio pubblico si può approssimare considerando il fatto che il rendimento del BTp decennale viaggia oggi 3,75 volte più in alto rispetto a 12 mesi fa, mentre nello stesso periodo lo spread con i Bund è cresciuto “solo” di 1,55 volte. Si spiega così il fatto che la prospettiva di nuovi rialzi dei tassi si traduca in Italia più come allarme sui costi del debito che come speranza nell’efficacia anti-inflazione. «Sarebbe meglio evitare scelte peggiorative», ha detto la premier Meloni nella conferenza stampa di fine anno, pochi giorni dopo che il ministro della Difesa Guido Crosetto, vicinissimo alla leader FdI, aveva bollato come «regalo di Natale deciso con leggerezza» l’ultimo aumento di Francoforte (Giorgetti, invece, da quando occupa la stanza centrale del Mef non è andato oltre all’invito a Francoforte di «tener conto del rallentamento dell’economia» nelle scelte sui tassi). Ma al di là della battaglia sulle prossime decisioni congiunturali di Francoforte, c’è un dato più strutturale destinato a farsi sentire parecchio. La lunga era dei tassi piatti non è destinata a tornare nell’arco di questa legislatura, e la politica monetaria restrittiva stringe la gabbia del programma di finanza pubblica in cui l’Italia si è impegnata a una forte correzione del deficit, tale da far rispuntare l’avanzo primario nel 2024 per portarlo all’1,1% del Pil nel 2025. E in questa gabbia non sarà facile trovare il modo di far spazio alle misure per abbassare l’età pensionabile con Quota 41, tagliare le tasse con la riforma fiscale e dare gambe alle altre promesse del programma di governo.