IL VOTO EUROPEO DEL 2024 SARÀ ANCHE L’OCCASIONE PER REGOLARE I CONTI ALL’INTERNO DELLA MAGGIORANZA DI GOVERNO. SI VOTERÀ COL PROPORZIONALE ED OGNUNO CORRERÀ PER CONTO PROPRIO. QUESTO SPIEGA IL DIMENARSI DI MATTEO SALVINI A METTERE BANDIERINE SULLE SCELTE DEL GOVERNO E A CERCARE DI CONTENERE SE NON CONTENDERE LA LEADERSHIP DELLA MELONI. DA QUI I DISTINGUO, LE CORREZIONI, GLI AGGIUSTAMENTI, LA RIGIDITÀ NELLE NOMINE IN ENTI A PARTECIPAZIONE PUBBLICA. LA MELONI STA AL GIOCO MA PRENDE LE MISURE A SALVINI PER LASCIARLO SOTTO IL 10 PER CENTO, MAGARI SPIANANDO LA STRADA A GIORGETTI PER LA GUIDA E IL CONTROLLO DELLA LEGA CREATA INSIEME A UMBERTO BOSSI.
DAGOREPORT
Chi confidava in una strenua opposizione al governo di destra-centro si è dovuto ricredere. Il Pd della Zeta-t-Elly Schlein, in piena riconversione armocromatica, è in cerca di una nuova identità, il terzo polo è deflagrato nello scontro tra i due ego-leader Renzi e Calenda, e i Cinque Stelle, con il loro tradizionale cinismo (senza un plissé, governi con Lega e Pd), hanno iniziato la legislatura in opposizione alla Reginetta della Garbatella, mentre ora fanno accordi per portare Dj Fofò Bonafede al Consiglio di presidenza della Giustizia Tributaria, e hanno aperto una trattativa per la spartizione dei futuri posti in Rai, per inculare definitavamente l’egemonia Rai del Pd. Il Conte Zelig conferma la sua straordinaria capacità camaleontica, dove allo slogan “Onestà, onestà” ha sostituito “Flessibità, flessibilità”, e posti al centro. L’unica reale competizione politica a cui stiamo assistendo dopo sette mesi di governo è quella tra Giorgia Meloni e gli alleati, Matteo Salvini e Forza Italia. È una sfida a tutto campo, dalle questioni internazionali a quelle di bottega, dove l’obiettivo è di far abbassare le penne alla Ducetta, in preda a una ubriacatura di “Io so’ Giorgia e voi nun sete un cazzo”. Ma il suo 26 per cento elettorale contro l’8 degli alleati va a infrangersi con il ricatto della minoranza: senza di noi il governo non esiste. Ghino di Tacco non muore mai. Il redde rationem di questo confronto si consumerà alle elezioni europee del 2024, quando ogni partito correrà con il proprio simbolo all’interno di un sistema totalmente proporzionale, e quindi peserà la propria forza elettorale. Il primo terreno di scontro è quello della “collocazione” internazionale. A dividerli non c’è solo la tratta Washington-Mosca, che vede Meloni su una posizione turbo atlantista e Salvini, in tandem con Berlusconi, meno sensibile alle ragioni di Washington, ma anche il posizionamento europeo. Giorgia Meloni, presidente del gruppo Ecr-Conservatori e riformisti, punta a un’alleanza con il Partito Popolare europeo, che sotto la guida di Manfred Weber, grande amico di Tajani, vuole spostarsi a destra (e sogna il posto di Von der Leyen). Inoltre, il flirt della Ducetta con i tories britannici di Rishi Sunak, che rappresentano il conservatorismo “buono” per le cancellerie europee, è un modo per staccarsi dall’ultradestra spagnola di Vox e di lasciare Matteo Salvini nella ridotta dei puzzoni insieme a Marine Le Pen e ai paranazi tedeschi di Afd. Tra l’altro, l’intesa tra Meloni e Sunak sulla linea dura verso l’immigrazione irregolare (“I migranti trasferiti in Ruanda non è deportazione”, Giorgia dixit) ha molto irritato l’Unione europea, che non si aspettava un asse tra un paese fondatore e uno che ha ripudiato l’Ue con il referendum sulla Brexit. Europa che, incidentalmente, continua a comprare attraverso la Bce i nostri Btp per finanziare il nostro sovrabbondante e insostenibile debito pubblico. Meloni non può permettersi di urtare la francese e filo-spagnola Lagarde, che è decisiva sul rialzo dei tassi. Non solo: colei che ha preso il posto di Draghi non ci ha pensato due volte di tagliare del 65% l’acquisto di titoli italici… E al nostro membro del comitato esecutivo Bce, il tosto Fabio Panetta, l’ha detto chiaramente: “Così non funziona…” Altro terreno di scontro riguarda il Mes: Giorgia Meloni non è contraria a ratificare l’accordo sul Meccanismo europeo di stabilità (manca solo l’Italia, gli altri hanno già votato), al punto da immaginare di portare l’approvazione in Parlamento, magari con voto segreto, ma Salvini e la Lega sono totalmente contrari al Mes e non vogliono cessioni, né formali, né sostanziali, sull’argomento. Eccezion fatta per il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che, per storia personale, e per ruolo, è molto più sensibile alle sirene di Bruxelles. La posizione del semolino della Lega è un altro tema che divide la premier e il segretario del Carroccio: Salvini lo considera un mero esecutore dei suoi desiderata e delle sue promesse elettorali. La Ducetta, invece, l’ha nominato al Mef, a dispetto di Salvini, per utilizzarlo come leva per politiche di bilancio più attente alle regole europee (come si è visto sia per la legge di bilancio che per il Def). La faida tra i due boss è stata evidentissima durante la partita delle nomine nelle società partecipate: Giorgia Meloni è stata costretta a ingoiare la nomina, come amministrazione delegato di Enel, di Flavio Cattaneo, voluto da Salvini, perdendo la faccia con Stefano Donnarumma a cui aveva promesso da mesi l’incarico. Anche sulle nomine in Ferrovie (RFI e Trenitalia) ci sarà da ballare la salsa, visto che Salvini vuole un esterno e la Meloni si è messa di traverso. Vuole la sua rivincita: Hai imposto Cattaneo all’Enel e ora dico la mia su Ferrovie… La contrapposizione tra i due, iniziata anche perché Giorgia Meloni era convinta di poter nominare tutti gli ad, in barba ai desiderata dei suoi alleati, ha generato una cascata di problemi, come si è visto sia in Enel che a Leonardo, dove i fondi internazionali si sono messi di traverso, presentando delle liste di minoranza, in contrapposizione con le decisioni del governo. L’unico a non aver avuto problemi con i fondi internazionali è Claudio Descalzi, che ha dalla sua due indubbie qualità: ha ben gestito Eni nel pieno dell’emergenza energetica, ma soprattutto non ha mai “irritato” Washington e Wall Street con nomine come quelle di Scaroni e Cingolani . E sulle nomine non è finita qui: al consiglio dei ministri del 4 maggio, quando si discuterà del decreto legge sull’età dei sovrintendenti (70 anni), per permettere a Fuortes di mollare viale Mazzini e approdare al Teatro San Carlo di Napoli, bisognerà scegliere anche il successore di Giuseppe Zafarana, alla guida della Guardia di Finanza. Se Giorgia Meloni ascolta i consigli del sottosegretario alla presidenza, l’intoccabile Alfredo Mantovano, eterodiretto da Luciano Violante, la scelta ricadrà su Andrea De Gennaro, fratello dell’ex capo della polizia Gianni, anche lui caro a Mantovano. Salvini e Forza Italia, invece, sono contrari all’ipotesi, pur non avendo altro candidato da proporre. E quando lo stesso Fuortes sarà sollevato dal gravoso incarico di ad della Rai, si aprirà il vaso di Pandora della Rai, con l’inevitabile vespaio di pretese, sgambetti e dispetti per accaparrarsi i posti che contano. E qui è molto attivo non solo il leghista ma anche Gianni Letta per ridimensionare le smanie dei Fratellini d’Italia. La lotta fra Giorgia e Matteo si consuma anche sull’organico di governo: la Meloni era convinta che il ministro dell’Interno, Piantedosi, fosse ascrivibile da vulgata alla quota Quirinale, invece ha dovuto constatare che il titolare del Viminale è rimasto, in cuor suo, capo di gabinetto di Salvini. D’altro canto, il segretario della Lega non ama particolarmente il fedelissimo di Donna Giorgia, cioè Alfredo Mantovano. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è considerato troppo distante, risponde solo alla Meloni, non riceve i sottosegretari, tratta gli alleati con gelida sufficienza. E anche nella comunicazione, i dissidi non mancano. Meloni ha smesso, dopo il disastro di Cutro, di fare conferenze stampa preferendo imabarazzanti video in cui appare da sola, in modalità ”Giovanna d’Arco unica donna al comando”. La linea di governo la detta lei, mostra i muscoli e non coinvolge i suoi alleati, né ama indugiare in discussioni infinite: a un certo punto li molla, gira i tacchi e lascia la contrapposizione a Fazzolari. A differenza del Berlusconi ecumenico e inclusivo, che risolveva i conflitti di maggioranza attovagliando tutti ad Arcore con le pennette tricolori, e cercando di trovare un accomodamento, la premier oppone un atteggiamento muscolare ai suoi alleati. Una intransigenza che non l’aiuterà a trasformarsi nella Thatcher italiana, ma solo a fare incazzare i suoi alleati di governo che si coalizzano contro i suoi diktat. Come se non bastasse, Giorgia e Matteo litigano anche sul già sgarrupatissimo Pnrr. La decisione di sfilare la governance già in mano al Mef di Daniele Franco, rivedendo la decisione presa da Mario Draghi, accentrando i poteri a Palazzo Chigi nelle mani di Raffaele Fitto, ha rallentato la “messa a terra” del Piano nazionale di ripresa e resilienza, azzerando i progetti e bloccando, di fatto, la terza tranche di finanziamenti da parte dell’Ue. La Lega ha iniziato a mettere in dubbio l’efficienza del sistema Italia nello spendere tutti i soldi, arrivando addirittura a dire, con il capogruppo alla Camera Molinari, ventriloquo di Salvini: “Meglio non spendere i soldi che spenderli male”. Meloni sta pagando la propria arroganza: appena entrata a Palazzo Chigi anziché mettere in chiaro che il Pnrr andava verificato voce per voce, ha subito dichiarato: spendiamo tutto fino all’ultimo centesimo! E il risultato fallimentare è sotto gli occhi di tutti…