(nella foto Giorgia Meloni e Ursula Von Der Leyen)
Alessandro Barbera per la Stampa – Estratti
Nessuna riforma del Patto di stabilità potrà essere più penalizzante delle vecchie regole. L’Italia corre semmai il rischio opposto: quello di porre il veto ad un accordo ed illudersi di aver scelto la strada giusta. Nei palazzi della Commissione di Bruxelles si respira una qualche preoccupazione per il destino di una delle trattative più importanti degli ultimi anni in Europa. Berlino sembra essere disposta ad avvicinarsi alle ragioni dei partner, ma al dunque alza l’asticella del rigore. Parigi cerca l’accordo anzitutto con Berlino, salvo poi accorgersi della difficoltà di ottenere la flessibilità di bilancio di cui anche la Francia ha bisogno. E poi c’è Roma, la terza capitale decisiva di questa partita, al momento distante dagli uni e dagli altri. Il momento della verità sarà l’8 dicembre, quando a Bruxelles si riuniranno nuovamente i ministri finanziari europei. Già questa settimana potrebbe rivelarsi decisiva. Domani il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti sarà a Parigi per incontrare il collega Bruno Le Maire. Il giorno dopo, mercoledì, sarà a Berlino con Giorgia Meloni per il summit bilaterale italo-tedesco, dove vedrà a quattr’occhi Christian Lindner, il duro ministro delle Finanze di Olaf Scholz. Meloni e Giorgetti hanno scelto la linea dura, e lo hanno detto pubblicamente: se l’Italia non dovesse trovare convenienti le nuove regole, tanto varrà tenersi il vecchio patto di Maastricht con tutte le sue eccezioni. (…) Ciò che preoccupano la Commissione e il commissario Paolo Gentiloni è la convinzione italiana di poter trarre un vantaggio dallo stallo. Lo spiega a La Stampa una fonte dell’esecutivo comunitario: «La proposta di riforma non implica stangate, bensì percorsi di aggiustamento più graduali delle regole esistenti. Essenziale è che il risultato del negoziato permetta questa flessibilità». La prima ipotesi di accordo formulata dalla Commissione prevedeva un forte potere discrezionale dell’esecutivo comunitario e la possibilità di sedersi al tavolo con ciascun partner per stabilire il percorso di rientro dai deficit pubblici. Quella ipotesi è stata bocciata da Berlino, che vuole parametri numerici e trasparenti, pur avendo accettato piani di rientro fino a sette anni. A complicare la trattativa ci sono le agende delle singole cancellerie. Per rendere accettabile la richiesta tedesca sono state proposte eccezioni al calcolo di alcune voci, per gli investimenti del Recovery Plan, o le spese militari: ciascun Paese spinge la trattativa con un occhio ai rispettivi bilancio nazionali. Sia come sia – questo il ragionamento delle fonti europee interpellate – nessuna ipotesi di accordo può essere preventivamente valutata come una iattura per l’Italia.(…) Comunque la si pensi, dicono negli uffici della Commissione, la flessibilità su cui l’Italia ha potuto contare in questi anni non sarà facilmente ripetibile.