Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per www.repubblica.it
Claudio Signorile, vicesegretario del Psi ai tempi del rapimento di Aldo Moro, dice che lui, la storia della chiamata a cui aveva assistito ore prima in cui si avvertiva del ritrovamento del corpo dello statista della Dc – chiamata avvenuta nello studio di Francesco Cossiga – la ripete da anni, anzi da subito dopo i drammatici fatti.
Soddisfatto della puntata di Report di ieri?
«Sono stati onesti, mi hanno fatto dire le cose che pensavo».
Oggi su Repubblica Luigi Zanda, che era il portavoce di Cossiga, risponde che il suo racconto è inverosimile.
«Io Zanda non lo ricordo in quell’ufficio».
In effetti spiega che non era con Cossiga.
«Ah ecco, appunto. Comunque non ho alcuna finalità, di questa cosa ne cosa ne ho parlato immediatamente, credo alla prima deposizione che feci al pm, sicuramente alla prima commissione stragi. Cossiga era vivo e non fui mai smentito né corretto. Questa dell’ora della chiamata non è un’invenzione di adesso».
Chi chiamò Cossiga?
«Non ricordo se fosse il prefetto o il questore». […]
Spieghiamo meglio: perché questo anticipo della notizia, rispetto alla famosa e nota telefonata del brigatista che comunica il luogo del ritrovamento, è un fatto così importante e inquietante?
«Che ci sia stata una distanza di qualche ora tra il ritrovamento e la sua comunicazione ufficiale, di cui fui testimone, e quello noto, significa che il discorso non è stato limpido o trasparente. A me colpì sentire parlare dall’apparecchio di una “nota personalità ritrovata”, con quel gergo burocratico. Comunque non mi sembrava nulla di sconvolgente a dire il vero, di anomalo forse c’era la richiesta di un incontro che mi fece Cossiga per quella mattina, io andai dall’allora ministro degli Interni nella convinzione che anche da parte sua e di tutta la Dc si volesse aprire una nuova fase, altrimenti che senso aveva, non avevamo altro di cui parlare…».
Cioè si apriva la trattativa con le Br.
«Sì».
E invece?
«Nell’area brigatista c’era una componente crescente che voleva chiudere politicamente la faccenda, con la liberazione. Invece ci fu un repentino passaggio di mano e vinse l’ala violenta. La sera prima del ritrovamento avevo ancora dei ritorni di speranza da quel mondo, pur avendo dubbi sull’attendibilità delle comunicazioni che ricevevo, ma ribadisco la sensazione che nel brigatismo si andasse verso una conclusione positiva».
Resta la domanda: e invece?
«Io ho una grande angoscia, quando ci ripenso. Sempre il giorno prima della morte di Moro, chiamai Craxi dal telefono della mia auto. Ero ben cosciente che sarei potuto essere intercettato. Ma lo avvertii che Fanfani era d’accordo ad aprire alla trattativa, che insomma la nostra azione umanitaria si stava concretizzando. Forse questo segnò un punto di non ritorno».
Nel senso che qualcuno dei servizi può aver avvertito le Br “cattive” o “telecomandate”.
«Penso che sì, ci sia stato un esito imposto dall’esterno, ne sono convinto. C’è un momento in cui viene impedito che si manifesti la svolta politica con un atto di violenza, quindi con l’uccisione. Se non si capisce il contesto di quegli anni non si comprende l’intreccio tra grande politica internazionale e terrorismo. Quanto ai servizi inglesi, avevano il coordinamento del Mediterraneo, la loro è una presenza documentata, anche qui nulla di nuovo».
Non si volevano i comunisti al governo, giusto?
«La tempistica del rapimento di Moro dice tutto. Probabilmente quel novembre del ’78 i comunisti sarebbero entrati nel governo. Berlinguer voleva sanare la ferita del ’48, cioè l’estromissione del Pci voluta dagli Stati Uniti».
Ma lei con chi parlava delle Br?
«Mi appoggiavo a Franco Piperno e Lanfranco Pace, cioè l’ambiente dell’autonomia e universitario, i quali a loro volta avevano i contatti con il cuore delle Br […]».